Tornai a casa ed a questo punto mi occorreva una damigiana da 50 litri per mettere a fermentare il mosto. Scesi con una torcia nella cantina ipogea per cercare un vaso vinario di questo tipo. Davanti ai miei occhi lo spettacolo di un luogo in cui il tempo si era fermato cristallizzando in una cornice surreale la nostalgia del suo passato glorioso, con le sue gigantesche botti di rovere, ventre materno del lavoro di tanti uomini che per decenni le avevano colmate. Non era il museo degli orrori che mi sarei aspettato di trovare, ma un posto dove sentivo di ritrovare la mia identità, e me ne innamorai. E finalmente trovai ciò che mi serviva: una bellissima damigiana.
Armato di tutta la mia buona volontà la portai su e cominciai a lavarla fino a ridarle la sua dignità ; e che dignità! Era una damigiana che avrà avuto i suoi 100 anni e più visto che era “soffiata” come ancora oggi si fa a Murano (oggi questi recipienti di vetro vengono prodotti stampando le due metà e poi incollandole tra loro).
Travasai tutte le taniche in questo recipiente d’epoca e feci partire la fermentazione. Questa si protrasse per più di venti giorni. Finita la fermentazione travasai quello che era diventato oramai vino in una damigiana nuova che avevo comprato per l’occasione. Finito il travaso non mi restava che sciacquare la damigiana d’epoca che aveva svolto fino ad allora il suo lavoro egregiamente. Non mi crederete, e stento a crederci anche io a distanza di tanto tempo e lo racconto per l’ennesima volta a voi perché è incredibile!
Prendo per il collo la damigiana, la sollevo e che succede? Il fondo della damigiana resta per terra ed alzo una damigiana rotta senza fondo; sì, avete capito bene quella damigiana era rotta ed avrebbe potuto cedere in qualsiasi momento riversando tutto il mosto in fermentazione per terra mettendo fine a tutto il mio futuro enologico. Qualcuno dall’alto con mani invisibili l’aveva tenuta insieme e in questo modo aveva voluto darmi il segno che quello che stavo facendo era giusto e che dovevo continuare farlo. Mi piace credere che sia stato proprio lui: il mio bisnonno Matteo Stoduto.
Ma non finisce qui. Un giorno, due anni dopo, il mio amico Girolamo mi chiese: “Ma poi che ne è stato di quel vino che hai fatto? Se hai qualche bottiglia perché non ce lo fai assaggiare”?
Detto, fatto. Tornai a casa presi una bottiglia di quel vino e la portai da lui, nella Cantina D’Araprì. La stappammo insieme, io, Luis,Girolamo e Ulrico. Dopo che l’ebbero assaggiato ci fu un solo commento unanime:”Degno dei migliori blanc de blanc francesi”. E così dicendo, mi suggerirono di partecipare, insieme agli oltre trecento concorrenti, al Concorso per vini amatoriali ENOTRIA che si sarebbe tenuto, come ogni anno, nel prossimo nel mese di maggio. Uno come me che rinuncia a una sfida? Mai!
Preparai l’etichetta – a rivederla oggi mi si accende un sorriso sulle labbra per il genuino dilettantismo della sua realizzazione – e denominai il mio vino “Settimo Cielo”, un nome che non esisteva allora nell’anagrafica dei vini, ma che oggi ne conta più di uno.
E con Settimo Cielo il 13 maggio del 2000 vinsi! Ero il primo classificato nella categoria dei vini bianchi. Anche questo era un segno che devo continuare!
Decisi di ristrutturare la vecchia Cantina compresa quella ipogea e mio padre, che non finirò mai di ringraziare per tutta la fiducia che ha sempre riposto in me, finanziò l’impresa.
Finalmente avevo la mia Cantina. Continuai con le mie micro vinificazioni, partecipai ad altri Concorsi e vinsi.