ORIGINI E TERRITORIO
TI RACCONTO UNA STORIA…
A quattro chilometri dalle pendici del Gargano, nel falso pendio che conduce alla città di San Severo, a 2 km dalla Casa Spumantistica Almagaia si trova la storica “Tenuta Varvaranna” . Tra i terreni di sua proprietà il mio bisnonno da parte materna Matteo Stoduto, noto e stimato imprenditore vitivinicolo del secolo scorso, scelse per la produzione dei suoi rinomati vini bianchi, tra tutti i terreni di sua proprietà, la “Tenuta Varvaranna”, dove la sua passione per la viticoltura di eccellenza si sposava con la vocazione di un terreno che, per la sua natura argilloso – calcarea, era in grado di regalare frutti preziosi e un vino bianco di qualità riconosciuta.
Infatti, la Tenuta Varvaranna era ed è classificata come “Terreno di Prima Classe” in quanto gravita in un’area, quella che circonda San Severo per un raggio di 2 – 3 km, in cui la freschezza del terreno è dovuta anche alla provvidenziale “falda freatica”, riserva idrica naturale molto superficiale in questa zona (nel centro di San Severo è tanto superficiale da allagare periodicamente alcune tra le cantine ipogee). Essa garantisce un equilibrio idrico per la vite anche in stagioni con scarse precipitazioni; allontanandosi da San Severo essa diventa sempre più profonda, diventando poco significativa per i terreni al di fuori di questa fascia.
Era l’epoca in cui San Severo era ricca di cantine padronali. Durante il periodo della vendemmia che iniziava per tradizione il giorno di San Matteo, a settembre inoltrato, il tintinnio dei torchi risuonava in tutti i vicoli e le strade del paese, insieme all’inebriante odore delle vinacce e, se è vero che esiste una memoria olfattiva, quell’odore ancora oggi mi apre davanti agli occhi, come in un film, i ricordi della mia infanzia, e ritorno per un attimo bambino. Era così anche per il mio bisnonno che ogni sera al calar del sole, fino alla fine della vendemmia, portava nella Cantina settecentesca di sua proprietà, oggi Sede di Almagaia, il frutto di un anno di duro lavoro di tanta gente. Il cavallo trascinando stancamente il carretto ” ’u trajìne” con a cassetta U trajenère e la squadra di operai, arrivava a San Severo in via Montebello 45, numero quanto mai propiziatorio, che nella smorfia napoletana rappresenta «Il vino buono»; arrivava con il festoso abbaiare del volpino “ ’u pumitt” legato sotto il carro e illuminato dalla fioca luce di un lume ad olio. Dopo che il cavallo veniva portato nella stalla per il meritato riposo, iniziava il lavoro più importante e delicato: la vinificazione. I “tinelli”, contenitori in castagno dalla forma cilindrica, contenenti i preziosi grappoli sofficemente stipati, venivano scaricati dagli operai, i “carrèia mantègn” e svuotati nel palmento «’u pavmènt», un enorme vasca rettangolare di castagno, per la pigiatura dell’uva, dove le donne a piedi scalzi, in una sorta di danza propiziatoria, schiacciavano l’uva per ricavare il mosto che attraverso un condotto scendeva giù nella settecentesca cantina ipogea a riempire le botti da 80 ettolitri in rovere tenute insieme non dai soliti cerchi di ferro, che non avrebbero tenuto alla spinta del vino contenuto in esse, ma da spesse catene. E non mancavano, nonostante le catene gli incidenti; una notte si racconta che una di queste catene abbia ceduto, la botte si sia aperta, e tutto il vino contenuto in essa si sia riversato nella cantina allagandola, in un attimo vanificando le fatiche di un intero anno di lavoro. Anche in questo modo la sorte misura la forza di un Uomo, che non consiste nel non cadere, ma nell’ avere il coraggio di rialzarsi e continuare a camminare, nonostante tutto. E venne il brutto giorno in cui per un incidente sul lavoro venne a mancare il mio bisnonno. In seguito alla sua scomparsa la Cantina di via Montebello 45 conosce un lungo periodo di oblio. Nessuno era in grado di prendere le redini, poiché suo nipote, nonché mio zio Matteo era poco più di un ragazzo, ed il suo unico amato figlio maschio Antonio , il mio nonno materno che non ho mai avuto la fortuna di conoscere, era morto prematuramente all’età di 32 anni , lasciando mia nonna Raffaella, una santa donna, vedova e con 2 figli da crescere: mia madre aveva due anni e mio zio Matteo era appena nato. Mio nonno Antonio, mi raccontano, era non un pezzo d’uomo, di più; alto quasi due metri con una corporatura erculea, tanto da essere stato assegnato durante il periodo di leva al Corpo Scelto dei Granatieri del Quirinale. Era amante della caccia tanto da avere tutta una serie di fucili e di paramenti per il suo cavallo bianco, fedele compagno delle sue avventure (nella Casa Spumantistica Almagaia è possibile vedere alcuni paramenti del suo cavallo: il “morso”,
le staffe, le tenaglie per ferrare il cavallo, lo specchietto per le allodole).
Mio nonno Antonio era tanto possente che, mi è stato raccontato, una sera rientrando da una delle sue battute di caccia incrociò un contadino disperato accanto al carretto rovesciato su un lato, per essersi sfilata la ruota dal mozzo; scendeva la sera ed era disperato perchè non sapeva come fare per rientrare a casa. Mio nonno, senza porre indugio, mise la schiena sotto il carro e da solo lo sollevò tanto da dare la possibilità al contadino di rinfilare la ruota nel mozzo; tanta era la possanza di quest’uomo. Ma quelli erano tempi in cui si poteva morire anche per un banale mal di gola (non c’erano gli antibiotici) e fu così che mio nonno lasciò questo mondo con un mal di gola mal curato sfociato in polmonite e setticemia. Per il mio bisnonno questo fu un duro colpo ed anche in questo frangente, mi ripeto, ancora una volta la sorte ha misurato la grandezza di quest’uomo nella capacità di continuare la sua missione, nonostante tutto. Dopo la sua morte anche la Tenuta Varvaranna venne estirpata.
Ma il destino aveva in serbo altre brutte sorprese , quasi a voler cancellare tutti i sacrifici del mio bisnonno: qualche anno dopo la sua dipartita anche mio zio Matteo morì a soli 17 anni. Quella di mio zio Matteo fu una tragedia immane per nonna Raffaella già provata duramente dalla sorte. Vedere uscire di casa il figlio sorridente per una gita e non vederlo ritornare più. Infatti, quella mattina mio zio era stato invitato ad un giro in macchina dal suo compare di battesimo Severo Cardone titolare dell’omonima concessionaria di automobili qui a San Severo, e quelle non erano occasioni da lasciarsi sfuggire per un ragazzo, perché un giro in macchina non era una cosa da tutti all’epoca; si potevano contare sulla punta delle dita quelli che a San Severo possedevano una macchina. Nei pressi di Ariano Irpino l’auto incrociò un carretto trainato da un cavallo il quale spaventato dall’auto – erano tempi in cui le auto erano così rare sulle strade, che per un animale trovarsi di fronte ad una di esse doveva essere motivo di grande paura – si imbizzarrì colpendo e sfondando con un calcio il finestrino dietro il quale malauguratamente era mio zio Matteo, che lo prese in pieno volto. Trasportato in ospedale morì per emorragia interna tra le braccia della suora, la quale riferì alla famiglia le sue ultime parole: “Povera mamma dopo tutto quello che ha sofferto nella sua vita, adesso dovrà sopportare anche la mia perdita”.
Fu naturalmente una grande tragedia anche per la mia povera mamma, allora ventenne : il suo unico fratello in un’infanzia da orfani, dove loro due erano tutto l’uno per l’altro nei loro giochi nella loro quotidianità, non c’era più; restavano da sole due donne lei e mia nonna Raffaella, gravemente ammalata di cuore ed anche per questo con gravi problemi economici. Allora non c’era il servizio sanitario pubblico; le medicine, i medici, i ricoveri li pagava il paziente: se avevi i soldi ti potevi curare, altrimenti morivi.
Nel momento del bisogno furono abbandonate a loro stesse da tutti, anzi un parente di mia nonna, di cui non farò il nome, pensò bene di approfittare della situazione facendo, come amministratore della proprietà, trovare anno dopo anno debiti da sanare. Queste furono le ragioni che costrinsero mia nonna a vendere le proprietà immobiliari una dopo l’altra.
Ma quando tutto per mia madre e per mia nonna sembrava perduto, tanto da non avere più nemmeno il denaro per mettere il piatto in tavola, mia madre conosce un galantuomo: mio padre.
Mio padre Raffaele Oreste Tafanelli , sebbene avesse tutt’altra missione nella vita, essendo un promettente aspirante notaio, aveva anch’egli nel sangue quella tradizione imprenditoriale agricola tramandatagli da suo nonno, il famoso per l’epoca avv. Oreste Cristalli il cui ritratto, insieme a quello dei suoi colleghi più insigni, è possibile vedere nella “Sala degli Avvocati” del tribunale di Foggia. Bene, quest’uomo aveva uno spirito imprenditoriale unico, ed un attaccamento alla terra fuori dal comune, e nella sua lunga vita investì sempre nel campo agricolo aprendo negli anni 30 a San Severo su via Tiberio Solis, nei pressi di Porta San Marco, sotto il suo palazzo, il primo frantoio elettrico di San Severo. Aveva anche un’industria per la produzione dell’olio di mandorla che ricavava dai suoi mandorleti, e che vendeva alle farmacie italiane per le preparazioni galeniche (a quell’epoca non c’era l’industria farmaceutica e i medicamenti venivano preparati dai farmacisti sulla base della “ricetta” che dava loro il medico: è questa l’origine del nome “ricetta” che oggi diamo al foglietto della prescrizione medica. Tutto questo per dimostrare che nulla nasce per caso e che l’origine della “Passione” risiede anche nel DNA di una Famiglia.
Ritornando alla Tenuta Varvaranna, mio padre, Raffaele Oreste Tafanelli, detto Oreste, con la gratitudine di mia nonna Raffaella, accetta di amministrare l’Azienda Agricola, ed essendo uomo di legge non ha difficoltà ad allontanare mezzadri e parenti vari che rivendicavano la proprietà di quello che restava dei terreni, di fatto essendo Lui l’Artefice della rinascita dell’Azienda Agricola, con la sua oculatezza ed il suo saper guardare lontano.
Avevo 18 anni quando mio padre decide di investire su Varvaranna: realizza un vigneto a “tendone” di bombino bianco il vitigno della tradizione vinicola sanseverese. Erano gli anni in cui ero studente universitario in farmacia, e non essendo sul posto non potevo seguire personalmente l’Azienda. In seguito, preso dalla mia attività lavorativa e dalla mia famiglia collaboravo con lui all’amministrazione dell’Azienda e, diciamo, il momento in cui io ero presente in campo in maniera significativa era la vendemmia, per presiedere alle operazioni di raccolta dell’uva e del suo conferimento alla “Cantina Sociale” di San Severo. In quel tempo la gloriosa Cantina ipogea di via Montebello 45 era ridotta ad un rudere,un pavimento di terra e pietre, senza luce, deposito di cose inutili pieno di ragnatele di cose, con le sue botti di rovere da 80 ettolitri completamente marce; il suo passato glorioso era solo un lontano ricordo.
La vendemmia del 1998 segna per la cantina di via Montebello 45 una svolta storica. Il mio bisnonno Matteo voleva una rivincita sul destino ed ha cominciato a guidarmi dal Cielo.
Accadde che il “telone” del carro di raccolta dell’uva si bucasse; il telone di plastica si mette nel carro per garantire la tenuta stagna dello stesso in modo che quando sul suo fondo comincia a formarsi il mosto derivante dallo schiacciamento degli acini dovuto al peso dell’uva sovrastante, questo non possa fuoriuscire colando per terra. Me ne accorsi perché vedi sul terreno una pozzanghera formata dal mosto che colava dal carro. Perché non andasse perduto, misi una bacinella sotto, e quando questa fu piena la vuotai in una tanica e la rimisi sotto, per tante volte fino ad ottenere una sessantina di litri di mosto. Arrivò il momento in cui il carro doveva partire alla volta della Cantina Sociale per il conferimento dell’uva; stavo per ributtare il mosto nel carro. Tutto ad un tratto mi balenò nella mente un’idea: anche se non avevo alcuna esperienza di vinificazione, ma ero comunque un farmacista e di chimica e di materie biologiche ne masticavo abbondantemente, mi chiesi: “Perché non provi a fare il vino con questo mosto?”
Dovete sapere che io sono un amante delle sfide e che mi piace affrontarle tutte e vincerle.
Ricordo la faccia di mio padre quando gli dissi: ”Questo mosto lo porto a casa e faccio il vino”.
Mio padre conoscendo le mie doti enologiche, pari a zero, conoscendo la complessità delle metodiche legate alla vinificazione, mi sconsigliò vivamente. Tuttavia, colsi un bagliore nei suoi occhi che mi dava un forte segno di approvazione.
Misi in macchina le taniche ed arrivato a casa le scaricai nel locale sovrastante la cantina ipogea.
E ora? Occorreva che qualcuno mi dicesse quello che dovevo fare!
Chi meglio del mio amico Girolamo D’amico della famosa Cantina D’Araprì?
Bene, in un baleno mi recai da lui che mi ricevette, con la sua cordialità e disponibilità che lo ha sempre contraddistinto, mentre stava “vestendo” le bottiglie del famoso omonimo Metodo Classico insieme agli altri due soci, Luis Rapinì e Ulrico Priore. Mi spiegò esattamente tutto quello che dovevo fare, non solo, ma mi diede tutti gli ingredienti che dovevo aggiungere per vinificare.

LA STORIA DELLA DAMIGIANA ROTTA
Tornai a casa ed a questo punto mi occorreva una damigiana da 50 litri per mettere a fermentare il mosto. Scesi con una torcia nella cantina ipogea per vedere di trovare un recipiente di questo tipo. Sembrava il museo degli orrori: ragnatele e sporcizia dappertutto, oramai abbandonata da decenni. Alla luce fioca di una torcia mezza scarica scorsi una damigiana bella grossa tanto sporca che il vetro non si vedeva più-
Armato di tutta la mia buona volontà la portai su e cominciai a lavarla fino a ridarle la sua dignità di damigiana; e che dignità! Era una damigiana che avrà avuto i suoi 100 anni e più visto che era “soffiata” come ancora oggi si fa a Murano (oggi questi recipienti di vetro vengono prodotti stampando le due metà e poi incollandole tra loro).
Travasai tutte le taniche in questo recipiente d’epoca e feci partire la fermentazione. Questa si protrasse per più di venti giorni. Finita la fermentazione travasai quello che era diventato oramai vino in una damigiana nuova che avevo comprato per l’occasione. Finito il travaso non mi restava che sciacquare la damigiana d’epoca che aveva svolto fino ad allora il suo lavoro egregiamente. Non mi crederete, e stento a crederci anche io a distanza di tanto tempo e lo racconto per l’ennesima volta a voi perché è incredibile!
Prendo per il collo la damigiana, la sollevo e che succede? Il fondo della damigiana resta per terra ed alzo una damigiana rotta senza fondo; sì, avete capito bene quella damigiana era rotta ed avrebbe potuto cedere in qualsiasi momento riversando tutto il mosto in fermentazione per terra mettendo fine a tutto il mio futuro enologico. Qualcuno dall’alto con mani invisibili l’aveva tenuta insieme e in questo modo aveva voluto darmi il segno che quello che stavo facendo era giusto e che dovevo continuare farlo. Mi piace credere che sia stato proprio lui: il mio bisnonno Matteo Stoduto.
Ma non finisce qui. Un giorno, due anni dopo, il mio amico Girolamo mi chiese: “Ma poi che ne è stato di quel vino che hai fatto? Se hai qualche bottiglia perché non ce lo fai assaggiare”?
Detto, fatto. Tornai a casa presi una bottiglia di quel vino e la portai da lui, nella Cantina D’Araprì. La stappammo insieme, io, Luis,Girolamo e Ulrico. Dopo che l’ebbero assaggiato ci fu un solo commento unanime:”Degno dei migliori blanc de blanc francesi”. E così dicendo, mi suggerirono di partecipare, insieme agli oltre trecento concorrenti, al Concorso per vini amatoriali ENOTRIA che si sarebbe tenuto, come ogni anno, nel prossimo nel mese di maggio. Uno come me che rinuncia a una sfida? Mai!
Preparai l’etichetta – a rivederla oggi mi si accende un sorriso sulle labbra per il genuino dilettantismo della sua realizzazione – e denominai il mio vino “Settimo Cielo”, un nome che non esisteva allora nell’anagrafica dei vini, ma che oggi ne conta più di uno.
E con Settimo Cielo il 13 maggio del 2000 vinsi! Ero il primo classificato nella categoria dei vini bianchi. Anche questo era un segno che devo continuare!
Decisi di ristrutturare la vecchia Cantina compresa quella ipogea e mio padre, che non finirò mai di ringraziare per tutta la fiducia che ha sempre riposto in me, finanziò l’impresa.
Finalmente avevo la mia Cantina. Continuai con le mie micro vinificazioni, partecipai ad altri Concorsi e vinsi.

IL GRANDE PASSO
Se un uomo non è disposto a rischiare per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale nulla lui. Sono parole di Ezra Pound e sono la mia filosofia di vita, la stessa che mi spinge a fondare nel 2002 insieme a due miei cugini e un amico comune, la Cantina Solapuliae s.r.l., azienda vitivinicola con sede in via Montebello 45. Sì, veramente un “grande passo” per me che ero già impegnato con un incarico di responsabilità in un multinazionale del farmaco che mi teneva lontano da casa per la maggior parte del tempo, e vi assicuro che per trovare il “tempo” dovevo fare i salti mortali lavorando anche il sabato e la domenica in cantina; era mia la responsabilità di produzione in campo ed in cantina, e per me questa è stata un’ottima “palestra”. L’ eccellenza di questa Cantina Solapuliae era un Montepulciano progettato, secondo una metodica messa a punto da me, per un lungo invecchiamento in botti di rovere: La sua etichetta era “Varvaranna”, un vino molto apprezzato che ancora oggi viene ricordato con nostalgia dagli estimatori.
Nel frattempo il vecchio tendone della Tenuta Varvaranna viene sostituito da un impianto a controspalliera ad alta densità, da dove tuttora derivano gli uvaggi per lo Spumante Metodo Classico Almagaia.
Nello stesso periodo perfeziono le mie conoscenze enologiche iscrivendomi al Corso triennale AIS per Sommelier, titolo che ottengo. Il mondo dello Spumante Metodo Classico mi appassiona, e comincio con i primi esperimenti di spumantizzazione, visto che la materia prima, il Bombino Bianco, non mi mancava nella Tenuta Varvaranna.
Dopo qualche anno la parentesi “Cantina Solapuliae” si chiude; nella cantina di via Montebello 45 continuo con ulteriori prove di spumantizzazione.
Un bel giorno, come si suol dire, il destino suona alla mia porta; ricevo una telefonata da un uomo che mi dice di avere con me un amico comune, che gli avrebbe detto che ero il proprietario di una cantina a cui lui era interessato per la locazione finalizzata alla produzione di spumante metodo classico. Il suo nome è Giandomenico Irmici. Ancora una volta la sorte guidata da mani invisibili mi concedeva un’opportunità.
Per farla breve, ci incontriamo scopriamo di aver lavorato per la stessa multinazionale con funzioni simili io farmacista in ambito farmaceutico, lui agronomo in quello agricolo. Così scopriamo che oltre a ciò ci accomuna soprattutto la passione per il mondo del vino da parte mia e per la sua spumantizzazione da parte sua
Due appassionati che il destino ha fatto incontrare per caso: Giandomenico Irmici che cercava una cantina da affittare per spumantizzare ed il sottoscritto Francesco Tafanelli Stoduto, che invece gli ha proposto una Società tra un agronomo e un farmacista mettendo a disposizione della stessa la sua Cantina di via Montebello, 45.
Sfruttando il titolo di IAP di mio figlio Giuseppe, oggi amministratore delegato della Società, nasce nel 2021 “Almagaia s.r.l. Società Agricola” Spumante Metodo Classico, un’azienda a conduzione familiare con la compartecipazione societaria di mio figlio Rffaele Tafanelli e di Tiziana Nardella moglie di Giandomenico Irmici. Ogni bottiglia di Almagaia passa tra le mani di questi 5 protagonisti in un modo o in un altro, per finire sulla vostra tavola e aggiungere valore ai vostri momenti più felici.

ALMAGAIA “NOMEN OMEN”
Ma perché Almagaia come marchio aziendale? Semplice, perché stappare una bottiglia di spumante fa festa, è allegria; e allora, come dicevano i latini, “nomen omen”, un nome una missione, rallegrare lo spirito : ALMA come Anima, GAIA come Allegra.
La stessa anima allegra e spumeggiante del Metodo Classico Almagaia.
Ma anche “ALMA” come passione, “GAIA” come terra felice , la storica “Tenuta Varvaranna” alle pendici del Gargano.
Qui la coltivazione della vite è affidata alle mani esperte dei nostri vignaioli.
Tutte le operazioni di coltivazione e raccolta vengono eseguite rigorosamente a mano.
Il vigneto è a controspalliera per garantire la massima qualità dell’uva.
La raccolta viene eseguita rigorosamente a mano scartando i grappoli ritenuti non idonei e con sistemazione soffice dell’uva in cassetta.
Il disciplinare Almagaia prevede una resa in uva per ettaro di non più di 80 ql
Nella Cantina settecentesca di via Montebello 45 tutte le operazioni vengono eseguite rigorosamente a mano a partire dalla presa di spuma, all’accatastamento , al remuage tutto su pupitre, al degorgement, alla tappatura, alla gabbiettatura ed infine all’habillage.
Il gusto unico di Almagaia riflette la sua filosofia produttiva dove è l’uomo e non la macchina che trova un ruolo centrale, in un prodotto che ricerca la perfezione nella tradizione artigianale nella sostenibilità ambientale.
“ALMA” COME PASSIONE “GAIA” COME TERRA FELICE
Ma perché Almagaia come marchio aziendale? Semplice, perché stappare una bottiglia di spumante fa festa, è allegria; e allora, come dicevano i latini, “nomen omen”, un nome una missione, rallegrare lo spirito : ALMA come Anima, GAIA come Allegra.
La stessa anima allegra e spumeggiante del Metodo Classico Almagaia.
Ma anche “ALMA” come passione, “GAIA” come terra felice , la storica “Tenuta Varvaranna” alle pendici del Gargano.
Qui la coltivazione della vite è affidata alle mani esperte dei nostri vignaioli.
Tutte le operazioni di coltivazione e raccolta vengono eseguite rigorosamente a mano.
Il vigneto è a controspalliera per garantire la massima qualità dell’uva.
La raccolta viene eseguita rigorosamente a mano scartando i grappoli ritenuti non idonei e con sistemazione soffice dell’uva in cassetta.
Il disciplinare Almagaia prevede una resa in uva per ettaro di non più di 80 ql
Nella Cantina settecentesca di via Montebello 45 tutte le operazioni vengono eseguite rigorosamente a mano a partire dalla presa di spuma, all’accatastamento , al remuage tutto su pupitre, al degorgement, alla tappatura, alla gabbiettatura ed infine all’habillage.
Il gusto unico di Almagaia riflette la sua filosofia produttiva dove è l’uomo e non la macchina che trova un ruolo centrale, in un prodotto che ricerca la perfezione nella tradizione artigianale nella sostenibilità ambientale.

ALMAGAIA s.r.l. Soc. Agr.
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